martedì 25 febbraio 2020

Non c'è un virus dentro di noi, ma una dittatura


Nonostante l'orgogliosa pretesa degli occidentali di vivere non solo nel migliore, ma nell'unico mondo possibile, gli eventi di questi giorni - e non ripetiamo di nuovo a cosa ci riferiamo - hanno dimostrato quanto siano in realtà dittatoriali il nostro sistema e ancora di più la nostra interiorità.
E' stato sufficiente convogliare la paura tra la popolazione costruendola su una colossale menzogna per indurla a un comportamento irrazionale, autolesionista e accettare un clima al limite del coprifuoco... esattamente quello che in Occidente si imputa alle dittature contemporanee o quelle storiche novecentesche in Europa.

Eppure nessun formale potere dittatoriale ci ha imposto nulla. 

Sono state le persone, nella propria ignoranza, nella propria pigrizia, nel proprio conformismo, ad assumere comportamenti utili non a se stesse ma al potere ed è questa la grande furbizia su cui il potere stesso si appoggia per mantenersi molto più saldo dei regimi propriamente detti.
Qui ci vengono alla mente le parole del filosofo e scrittore francese del '500 Etienne de La Boetie, "… vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi" (dal "Discorso sulla servitù volontaria").
Il comportamento degli italiani in questi giorni, una condotta assolutamente funzionale a un regime dittatoriale, dimostra una volta di più come sia il popolo stesso l'unico e solo responsabile del proprio destino e della condizione in cui versa.
E questo ci dimostra come la dittatura, la tirannide, non sia una condizione esterna al cittadino, ma interiore.
Essa viene proiettata e prende forma nelle istituzioni nel momento in cui la cittadinanza, "dittatoriale dentro", lo permette o addirittura lo desidera e dimostra quindi l'esistenza di un lato oscuro e poco riconosciuto della natura umana.
E poiché l'Italia non è certo una rosa (appassita) nel deserto e quasi tutti gli altri popoli del mondo dimostrano la stessa propensione all'autodittatura, questo ci permette di compiere un primo passo nella lotta politica e nella riconquista della libertà e che ci porta al confine tra il politico e l'esoterico.

Così come la libertà medesima è una condizione prima di tutto interiore, e questo già è stato detto e scritto da molti, lo è anche la dittatura. Per poter coerentemente ed efficacemente sconfiggere l'oppressore fuori da noi, dobbiamo prima di tutto sconfiggere quello che portiamo dentro... quello che vuole essere piacevolmente manipolato dal tiranno o che, segretamente, vorrebbe sedere al suo posto.

„… vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi.“

Origine: https://le-citazioni.it/frasi/171991-etienne-de-la-boetie-vorrei-soltanto-riuscire-a-comprendere-come-sia/

„… vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi.“

Origine: https://le-citazioni.it/autori/etienne-de-la-boetie/
„… vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi.“

Origine: https://le-citazioni.it/autori/etienne-de-la-boetie/
„… vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi.“

Origine: https://le-citazioni.it/autori/etienne-de-la-boetie/

Avere. Essere. Storia.

Volentieri ospito questo articolo dell'amico Lorenzo Merlo.
Chiedo scusa per la pessima impaginazione, concentriamoci sul contenuto!
Buona lettura!


Avere. Essere. Storia.
di lorenzo merlo 260120
Genitori della perfezione
L’idea della perfezione, allusione all’equilibrio, si può riconoscere in
tutte le cosmogonie.
È anche vero che Platone, Aristotele, Socratici e presocratici avevano
dedicato il loro tempo al tema della perfezione. Ma, insieme alla questione
dell’ordine, fu da parte loro trattata in termini prettamente filosofici e
ontologici, vuoti di strumentalizzazione diretta verso alcuna ideologia. La
loro indagine non ebbe ricadute politico-sociali paragonabili a quanto poi
avvenne con l’illuminismo e il cristianesimo.
Fatti salvi questi i profondi legami filosofici relativi al binomio uomoperfezione,
per noi comuni moderni e postmoderni, può valere che, l’idea
della perfezione derivi dall’Illuminismo, dalla sua capacità d’aver colto che il
dominio della ragione avrebbe risolto molti dei problemi che avevano
assillato la storia fino a quel momento. Un ordine si affacciava all’orizzonte.
E sarebbe stata luce.
Ma, se l’epoca dei lumi ha generato il talento della ragione, il seme della
paternità dell’idea di perfezione è da far risalire ad una precedente idea
dell’ordine compiuto, quella cristiana. È quindi nella triade della
compiutezza divina il gene di quella razionalista.
Se l’evocazione cristiano-metafisica concede a se stessa di sussistere,
quella fisica, fatta di storia, esclusiva dell’intento illuminista, ha in sé il
fallimentare virus dell’improprietà: cosa di più inadeguato all’uomo della
perfezione? Come ridurre l’infinito umano entro lo stretto campo del
razionalismo?
Lo sciamare da corpo a corpo di identici sentimenti ci rende individuiburattini.
Appesi ai loro fili scambiati per realtà, il tirare e rilasciare non è
mai del tutto nostro, almeno fino all’emancipazione nei confronti della loro
tirannide.
Il movimento è invece relativo a come viviamo le relazioni. In queste,
frugano le emozioni, incontrollabili detonatori o estintori di azioni, scelte,
comportamenti, sentimenti. Veri e propri interruttori che aprono o
interrompono il flusso di energia vitale.
Come detto, è un evento che accade indipendentemente dalla nostra
volontà finché la serie di consapevolezze opportune non permetta
l’osservazione del meccanismo del dominio e della dipendenza da emozioni
e sentimenti e conduca alla liberazione.
Anche se abbiamo a che fare con due perfezioni, una della ragione,
l’altra divina, una storica e una universale, il loro orizzonte immaginativo è il
medesimo: per entrambe sussiste una possibilità evolutiva.
Luogo comune
La ribadita (come salvifica per chi la pronuncia) voce del Sommo: Fatti
2
non foste per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza, è una formula che
vale per ambo gli ideali di uomo perfetto.
Germina da un humus cristiano; nasce nel momento di un cambio di
passo epocale (apertura al volgo); si afferma come comandamento morale e
intellettuale. Autoreferenzia il portatore.
Contiene l’intero arco spettrale per riconoscere come la suggestione
evolutiva possa farci indurre a credere di poterci separare o elevare dalla
storia, dal suo fango, dal suo sangue.
Virtù come definitivamente acquisibili e conoscenza come se il sapere
intellettuale, coincidesse con il bene, con il giusto e con il dovere santo. Non
solo, come se esso fosse disponibile e acquisibile da chiunque.
Senza contare infine che la perfezione razionalista non ha più un’opzione
aperta all’equilibrio. Nella sua tronfia corsa, perde per strada l’uomo. Essa si
esaurisce infatti nel
superamento tecnologico permanente e nell’accumulo ad infinitum.
Astrazioni dal conosciuto
Sebbene non secondo la via della ratione e dei saperi cognitivi, nella
storia delle culture del mondo, ci avevano provato anche altri – e ci erano
pure riusciti – ad affermare uno stato umano perfetto in quanto in equilibrio
e nel benessere, definitivamente alieno alle forme caduche della mondanità,
libero dai dogmi delle ideologie e dai tanto facili, quanto inutili moralismi,
stregua di fuorvianti superstizioni.
Erano, sono stati i tentativi tradizionali uniti dal comune svincolamento
dall’incantesimo dell’io, quale autentico sarcofago che ci segreta a noi stessi.
Si può infatti vivere nutrendosi di prana; si può liberarsi dal conosciuto
e rientrare nell’Uno; si può denudarsi di se stessi fino a recuperare la
condizione energetica della materia e muoversi con i suoi flussi; si può
perdonare e accettare e recuperare la felicità, vivere nella gratitudine.
Tutto si può una volta svincolati dalla rete a strascico dell’illusione
scambiata per realtà.
Entro questa dimensione starebbe anche il cattolicesimo, purché nella
sua lettura esoterica. Quella della vulgata è solo uno strumento politicoeconomico
che nulla ha a che vedere con l’evoluzione personale che porta
anche a camminare sulle acque.
Così in alto come in basso
Nonostante la lezione alchemica sia disponibile a tutti, nonostante essa
abbia avuto sostenitori non certo considerati occultisti e quindi ciarlatani,
essa pare scivolare anche sopra il più ruvido campo razionalista.
“Solve et coagula” – “Per orientarti nell’infinito, distinguer devi e poscia unire”.
Goethe
Ma, tra la perfezione Razionalista e quella delle Tradizioni, sussiste una
differenza fondamentale. La si può rappresentare graficamente adottando il
piano cartesiano.
Per quella razionalista, troviamo disegnato un segmento diagonale che
si allunga all’infinito. La luce è sempre accesa.
3
Per l’altra, un ingarbuglio di sali-scendi-avanti-indietro.
Una non ammette ricadute, la sua crescita è per sua natura permanente;
l’altra sa che proprio nelle indefesse ricadute, trova il necessario al suo
scopo. Nel buio la sua luce.
Avere
La prima via alla perfezione, quella razionalista, ha un carattere
meccanico. La seconda, euristico e serendipidico.
Una esaurisce se stessa nel sapere cognitivo, l’altra è in grado produrre
conoscenza attraverso molteplici doti genericamente estetiche.
Una, per essere, separa. L’altra vede l’insieme.
Una si libra nel futuro superando ogni ostacolo, dopo aver creduto di
cacciare via gli umori umani come scorie svuotate di sostanza
dall’intelligenza superiore che afferma. E anche, accompagnata e sostenuta
dalla certezza che le acquisizioni intellettuali sono necessarie allo scafandro
iperboreo, a sua volta indispensabile per sentirsi definitivamente superiori a
coloro che non adottano il medesimo protocollo di perfezione.
La loro inconsapevole bandiera tecnologica, in cui si nasconde un ché
di feticistico, è autosuggellata più che mai dalle potenzialità digitali. È vero,
mostruose rispetto a quelle analogiche, ma anche mostruosamente
superficiali sempre rispetto a quelle estetiche.
Sembra sventoli un preciso motto: oltre all’ego non c’è verità.
Ma c’è una controindicazione.
«Una delle conseguenze dell'era tecnologica è l'incidenza diretta che questa ha avuto
sulla sfera del sentimento, colpendo anzitutto la percezione che l'uomo ha di se stesso.
Questo perché, per la prima volta nella storia, nasce un nuovo tipo di vergogna: non più
quella tra uomo e uomo ma quella tra uomo e macchina, tra l'uomo ed il suo prodotto,
verso il quale viene avvertito un senso d'inferiorità. Il problema fondamentale
dell'inadeguatezza dell'uomo, nell'incapacità di tenere il passo con il mondo dei suoi stessi
prodotti, viene utilizzato da Anders per introdurre la vergogna prometeica. All'interno di un
mondo altamente tecnologizzato l'uomo è chiamato al confronto con un'infinità di prodotti
perfetti, una fabbricazione calcolata nei minimi dettagli che va a contrastare con il
«processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita»1.2
Essere
L’altra modalità di perfezione umana, cristiana non caccia via nulla,
semmai utilizza tutte le pochezze umane quali strumenti per accedere ai
luoghi oscuri di noi stessi; per specchiarsi e riconoscersi nel prossimo, in
particolare quello prima denigrato. Sa che le sue acquisizioni non sono
definitive, non sono sue, non separano. Sa che possono essere perdute, sache
il precipizio nella follia dell’identificazione con l’io è sempre a un passo. Una
qualunque orgogliosa distrazione può farci precipitare negli abissi delle
supreme superstizioni della scienza e dei suoi ideologici derivati.
Non ritiene che studiando e conoscendo cognitivamente si possano
compiere passi avanti, semmai è consapevole che ogni dato di quel genere,
se aggiunto come verità, rischia di appesantire, di opacizzare, se non
annientare la nostra creatività o libertà di essere noi stessi.
1 Gunther Anders, L'uomo è antiquato. I. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati-
Boringhieri, Torino, 2003, p. 32.
2 https://mondodomani.org/dialegesthai/vru01.htm#
4
«[…] perché devo infatti affermare che la verità è solo quello ciò che io posso affermare
come vero? Chi ci dice che la verità non ci sorpassa o che la nostra mente (mens) è la misura
di ogni cosa invece che lo specchio (la riflessione) della “misurabililità” dell’essere? E
perché, poi, dovrei accettare solo ciò che mi si presenta in modo chiaro e distinto? Forse
che la mia mente è sensibile solo all’evidenza razionale? Io devo– naturalmente – accettare
come chiaro e distinto ciò che io vedo come chiaramente e distintamente; né d’altronde
sono tenuto ad accettare come evidente ciò che non mi appare come tale; ma perché dopo
tutto dovrei rifiutare ciò che ascolto, o ciò che vedo con minore evidenza? Non lo accetterò
come “chiaro”, ma potrò sempre accettarlo nel modo in cui mi viene offerto. E non può
darsi il caso che precisamente le cose “supreme” e le più importanti siano aldilà del campo
visivo proprio al mio occhio nudo e limitato? Se io identifico la verità con ciò che vedo
chiaramente come vero, io escludo con questo atto tutto quanto sta al di sopra o al di sotto
o al di là di un elemento particolarissimo della mia facoltà conoscitiva, della mia ragione».3
Entrambe le prospettive, quella razionalista e quella cristiana, sono
promesse di evoluzione.
Una con passaggi di accumulo di dati come gradini progressivi a
garanzia. Misurabile.
L’altra con dolore, dedizione permanente e nessun titolo sancitorio di
alcunché.
Una esogena, l’altra endogena; vanitosa e virtuosa; ufficiale e ufficiosa;
riconosciuta, segreta; diretta e circolare; curricolare, senza valore per il Pil.
«Un momento irripetibile, uno sguardo, un sorriso, un’intuizione un sospetto, hanno
un valore che non si lascia imprigionare dalla ripetibilità. Vale a dire che se riduciamo la
conoscenza a ciò che può essere ripetuto, a ciò che può essere formulato con leggi,
impoveriamo la conoscenza».4
Storia
Entro l’ambito di questi argomenti non si può omettere una terza
concezione del mondo. È quella dell’Islam sunnita, il più diffuso.
In essa non v’è che la storia. Alcuna evoluzione umana è concepita. I
sufi, prevalentemente sciiti, sono tollerati in quanto sorta di altra fede. Nel
mondo sunnita hanno vita assai più dura. È la loro interpretazione spirituale
del Corano a renderli negletti dai loro stessi fratelli musulmani.
Nell’Islam esiste dunque solo la storia. L’aldilà, la janna, di pascoli
rigogliosi, freschi boschi di montagna, ruscelli effervescenti e 42 huri, vergini
cadauno – purché non divorziati –, sono una promessa strumentale alla
politica. Ma forse più rispettabile rispetto a quella cristiana in quanto si
riferisce, nuovamente alla sola ma assoluta dimensione storica.
(Per le donne è promesso il ritorno all’età della giovinezza inteso come
condizione di sposa, che implica anche la soddisfazione sessuale. Gli
omosessuali non hanno accesso al Giardino del Paradiso).
L’umma, il popolo dei musulmani, rammenta che se il rapporto con Dio
è individuale, non c’è alcuna distinzione tra i fedeli, qualunque sia la loro
condizione individuale nella società. Non c’è neppure alcuna forma di clero.
Il rapporto col Supremo non è mediato, né mediabile. L’imam, guida,
conduce la preghiera a mo’ di funzionario competente, non è tramite di
niente.
Anarchia compiuta
3 Paolo Calabrò, Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne, Reggio Emilia, Diabasis, 2011, pp. 64-65.
4 Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, Milano, 2005, p 217
5
Ogni uomo, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, è tenuto a
comportarsi secondo la shaaria, la legge divina che regolamenta ogni aspetto
sociale. Il massimo possibile è semplicemente essere un buon musulmano,
cioè assoggettarsi ai cinque precetti dell’Islam: la testimonianza di fede,
Shahaada (Ašhadu an lā ilāha illā Allāh - wa ašhadu anna Muḥammadan
Rasūl Allāh, Non vi è altro Dio che Allah e Maometto è il suo profeta), la
preghiera, Salaat (cinque volte al giorno), l’aiuto ai bisognosi, Zakat (dare ai
poveri per permettersi di godere quanto guadagnato), il digiuno, Ramadan
(per gli adulti, un mese all’anno, cibo e bevande sono al bando durante le
ore di luce solare), il pellegrinaggio a La Mecca, Haji (almeno una volta nella
vita, corredato ad altri rituali).
Fatto questo null’altro è chiesto al musulmano per entrare nel regno dei
cieli. La sua condizione non prevede alcuna evoluzione verso una
condizione ultrastorica. Il perdono cristiano, e non solo, è sostituito con la
legge del taglione, a sua volta di copyright non islamico. Ed è forse in questo
punto – simbolicamente inteso – che si apre il bivio in cui le strade della
cristianità e dell’Islam si separano da quella magistrale tracciata
dall’Ebraismo. Sufficiente a sostenere le due visioni o le due psicologie.
Quella cristiana orientata al cielo, quella islamica orientata alla terra.
Forze telluriche
Per l’islam, la storia si ripeterà in eterno perché gli uomini saranno
sempre identici a se stessi. Così come hanno fatto in passato, faranno in
futuro. Il loro dovere è dunque uno soltanto, non è scisso tra religioso e
laico. La loro società è integrale, non a caso nelle moschee non si va
soltanto a pregare, sono edifici sociali.
L’islam ha un centro esclusivamente terreno, in esso c’è il nucleo della
sua forza. Un centro che altrove si è disciolto tra gli umori liquidi e arroganti
del narciso individualismo dell’ultimo uomo nietzscheano.
Nessuna escatologia metafisica lo può far dubitare di se stesso o anche
solo criticare. Nessun razionalismo o logica aristotelica, né bieco
positivismo può nuocere l’ontologia dell’islam.
Anche in una loro espressione si trova la presenza dell’esigenza di
perfezione. Così come la rappresentazione umana a mezzo di pitture,
sculture, eccetera corrisponde ad un oltraggio nei confronti di Allah, la
ricerca architettonica, artigianale e decorativa – nota nel mondo per la sua
particolare estetica e precisione formale – rappresenta tanto la totalizzante
devozione a Dio, quanto la massima tenzone che gli uomini possono
compiere per innalzarsi al medesimo.
Tre perfezioni
Le tre perfezioni, quella razionalista, quella delle tradizioni e quella
storicistica dell’islam hanno in sé tre diversi epiloghi o destini per l’uomo.
I
Per la prima, quella della positivistica tirannia della ragione, si può
prevedere il crollo, l’implosione. Come infatti tifare – consapevoli della
finitezza della storia – ad una crescita infinita se non ipotizzanto una
6
permanente obsolescenza di ciò di cui si dispone? Come non valorizzare il
crescente impoverimento umano generato dalla sottrazione di uno scopo
esistenziale, sostituito da merci e da valori ad esse soggetti? Come non
tenere in considerazione il crescente numero di disturbi psicologici, di
incapacità di gestire se stessi.
Ma anche, come considerare accettabile la sua riduzione dell’uomo a
cosa o carne da mercato? È proprio del liberismo ridurre la realtà – politica
inclusa – al solo paradigma del mercato, celebrare l’individuo e disgrerare le
comunità.
Esso è consapevole che l’infinito presente in noi non è comprimibile,
che eccedere nella pressione ha forti controindicazioni. Provvede al
problema con la soporiferizzazione attraverso la comunicazione, ormai
anche elaborata attraverso il furto dei dati che le servono per soddisfarci.
La realtà dello spettacolo non è più un monito situazionista, non c’è più
bisogno di scomodare Orwell, The Truman Show, Quarto Potere, Matrix,
Huxley, Nietzsche, basta affacciarsi alla finestra.
Viviamo addormentati dentro la logica della Torre di Babele.
Scambiamo il sogno per realtà ultima nei confronti della quale l’Intelligencija
che si crede tale, i titolati, gli specialisti, i curriculati, non sanno fare altro che
assecondare il sogno.
La perfezione razionalista, supportata dalla fisica meccanica classica
ritiene di produrre conoscenza seguitando a scomporre l’unità. Forse la
fisica quantistica, apparentemente la salverà, di fatto la ridimensionerà,
obbligandola ad abdicare al trono supremo sul quale ha per qualche secolo
dominato le menti. Finalmente potrà occuparsi di amministrazione delle
quantità e lasciare che delle qualità e dell’invisibile si occupi chi è in grado di
interpretare il mondo nelle relazione, in modo volumetrico, scorgendo cioè
il flusso energetico degli intenti particolari e generali che vi fanno campo.
Un compito che la fisica quantica è in grado svolgere sebbene non
supportata da nessun grande network del mondo affinché la nuova
concezione della realtà si diffonda.
Il suo potere è inoltre sincretico. Tende a riconoscere – se già non si
possa dire l’abbia già fatto – l’attendibilità della ricerca espressa dalle
tradizioni storiche. Ecco dunque, la sola sopravvivenza del vecchio reame
razionalista rimarrà soltanto nel settore amministrativo della realtà.
II
La seconda, quella della ricerca evolutiva, comunemente intesa come
spirituale, è in realtà una via in cui si arriva ad avere a che fare con se stessi.
Si arriva cioè a prendere coscienza che fino a prima si aveva a che fare con
l’idea di se stessi, con l’io.
Sebbene anch’essa, come il cristianesimo, la scienza e ogni profondità
umana, sia soggetta ad una dimensione degradata a vulgata, definita da
luoghi comuni che nulla hanno a che spartire con la nuce dei principi
originari – solo poi esoterici –, in essa si può cogliere la disponibilità di un
equilibrio possibile, per quanto da non considerare definitivo.
Il connotato essenziale della vulgata è circoscrivibile a un’impropria
interpretazione dei concetti in questione. Improprietà che deriva
dall’inconsapevole impiego di strumenti logico-positivisti applicati a formule
che si rivelano nella loro natura soltanto se ricreate attraverso l’ascolto e ad
7
una sorta di nolontà, una libertà dal conosciuto e quindi dalle pretese dell’io.
Ma c’è un secondo livello di degrado che è opportuno riconoscere: la
comprensione intellettuale, l’acquisizione concettuale scambiata per l’ultimo
gradino da superare per accedere ai segreti. Un equivoco assai sconveniente
per il ricercatore e di non facile isolamento. Tuttavia, quando subentra una
presa di coscienza opportuna, compare la cima dell’incarnazione. A quel
punto, l’anticima della comprensione cognitiva dimostra la sua distanza dalla
vetta. Dunque non si tratta di riconoscere la vetta ma di esserla. Cessare di
riflettere luce e divenirla.
Resta vero che si tratta di una evoluzione che sebbene sulla carta possa
interessare tutti, di fatto l’attuale realtà dello spettacolo certo non invita ad
avviare attenzioni in profondità, così come l’individualismo edonistico non
favorisce la dedizione permanente necessaria a questo percorso. Rimane
perciò una ricerca ristretta a coloro che, avendone l’esigenza, come l’acqua
che trova il passaggio più carsico, in autonomia trovano come perseguirla.
Il destino della ricerca di sé implica la tendenza alla forza e alla stabilità
dell’essere umano. Al momento appare ancora utopica per la maggioranza,
ma molti segni dispersi negli oceani delle forme, fanno sospettare che
l’accelerazione possa stringere i tempi. L’eventuale o la prevista implosione
del paradigma egoico, potrebbe essere un elemento scatenante la cultura
della natura, o psicologea come ho sentito dire.
III
La terza, o islamica, ha il forte argomento che tende ad essere
soddisfacente per tutti i generi e le categorie d’uomo, fatto salvo le nature
più sottili; tende a tenere uniti ciò che altre forze della vita hanno separato.
Se il dramma esistenziale è sintomatico di un corpo che si concepisce come
una macchina, nell’islam, il rischio di psicopatologia tende a non sussistere.
L’uomo è quello che è, indipendentemente dalla condizione sociale che
riveste. Se il suo compito è rispettare la parola di Allah, come sospettare
possa disperdere la sua intelligenza tra i rigagnoli di una realtà mercificata e
opulente?
È anche in questo punto che l’invasività della cultura occidentale ha
premuto eccessivamente fino a provocare il risentimento nei confronti dei
musulmani – secondo gli islamisti – permissivi, degli sciiti e dei cristiani.
Diventa allora facile, intendere strumentale a certo pensiero
uniformato, riconoscere il carattere fondante della jihad, la guerra al kafir,
all’infedele in quanto corruttore di una stabilità e di una forza dell’uomo che
appare doverosamente invidiabile dai molli castelli del nostro
assistenzialismo, dai nostri corridoi di ospedali, di scuole, di parlamenti.
Purché non si creda che gli strumenti razioni si possano aprire gli
scrigni di queste verità, diventa facile comprendere l’intento della shariaa, la
sua offerta di serenità. La grande diffusione della Poesia che si dispiega nel
mondo musulmano forse ne è una conseguenza.
«L’islam nasce in posizione di protesta contro un ordine sociale religioso,
quello tribale pagano che lo precedeva in Arabia nel secolo VII, ma non in
posizione di critica o di negazione del mondo terreno in quanto tale.
Fin dall' inizio l’islam si presenta come un movimento che intende
rivendicare a sé l’intero ciclo dell’esperienza, del sapere, della volontà, della
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vita umana individuale e sociale, per portare a compimento nel mondo i
disegni di Allah. Dunque niente posizione ambigua rispetto alle realtà
mondane: non c’è bisogno di far capriole metafisiche per accettare insieme
i ricchi e certe parabole sulla cruna degli aghi, la guerra e l’amore
universale, lo stato e la chiesa, la carne e lo spirito, per superare tutti quegli
innumerevoli dualismi che minano l’endocosmo cristiano e la civiltà
occidentale»5.
«[…] la parola religione - se intesa in senso cristiano - è intraducibile in
termini dell’islam ortodosso sunnita. Siamo di fronte a due endocosmi
strutturalmente diversi»6.
«Il termine stesso di islam (abbandono alla volontà divina) non esprime
tanto, come si suol credere, l’accettazione passiva del fato, quanto la
coscienza della signoria totale ad Allah»7.
«[…] una fede che investe tutta la vita attuale, reale, immediata, terrena,
soda, succosa, integrale, con la sua politica e le sue guerre, i suoi affari ed i
suoi amori, senza innalzare divisioni tra sacro e profano, tra chiesa e stato,
tra sacerdozio e laicato. Questo, non v’è dubbio, è un formidabile
elemento di forza, è la famosa «democrazia musulmana», che spiega in
qualche modo la costante vitalità dell’islam e il suo fascino per tanti popoli
lungo i secoli»8.
5 Fosco Maraini – Paropàmiso – Leonardo da Vinci, Bari, 1963
6 ibidem
7 ibidem
8 ibidem

sabato 15 febbraio 2020

La discriminazione immigrazionista della donna



Non è una novità che il sistema capitalista e il suo pensiero unico globali facciano perno su una tragicomica inversione dei significanti e significati, prendendo spunto in questo dalle stesse tecniche di comunicazione suggerite nel 1984 da George Orwell in cui compito del Ministero della Verità era diffondere una menzogna ritenuta però veritiera quasi per autosuggestione.

Ed è così che oggi chi vede giustamente nell'immigrazione di massa una manipolazione del capitale utile a scatenare sia guerre tra poveri per colpire i diritti dei lavoratori, sia la miccia per accendere disordini sociali, sia ancora un mezzo per far sparire la pluralità di pensieri a favore di una cultura unica facilmente controllabile, viene considerato paradossalmente razzista.
Eppure questa razionale opposizione all'immigrazione parte proprio dalla constatazione che i paesi ricchi del mondo stanno sfruttando quelli poveri per mantenerli nella miseria e indurre quindi ingiustamente i popoli locali a emigrare abbandonando quella terra in cui in altre circostanze sarebbero ben volentieri rimasti.

Diversamente chi, dietro la maschera della globalizzazione, dei porti aperti, del mondo borderless, appoggia questi movimenti e l'integrazione forzata quasi con atteggiamento da tifoso da stadio, considera se stesso antirazzista ma appoggia implicitamente lo sfruttamento dei paesi di provenienza dei poveri immigrati, poiché senza tale sfruttamento i movimenti migratori nemmeno inizierebbero.

Ma se questo fenomeno comunicativo può apparire banale, è una sua declinazione specifica contro le donne a non essere ancora stata presa in considerazione.
La retorica immigrazionista vorrebbe infatti sottovalutare l'inverno, o meglio sarebbe dire l'inferno demografico italiano ed europeo, affermando che l'afflusso di nuovi immigrati dovrebbe compensare il calo di nascite nel nostro paese e continente.
Tale retorica infarcita di buonismo fugge però anche in questo caso da una nuova contraddizione, poiché il flusso di immigrati può essere sostenuto non solo dalla persistente miseria del sud del mondo ma anche da un tasso di natalità locale ben al di sopra di quello italiano ed europeo che garantisca ai barconi sempre nuovi e giovani passeggeri disperati.

Se dunque, portando a compimento una perversa idea di emancipazione femminista che disprezza la potenzialità materna della donna, gli immigrazionisti vedono di buon occhio le culle vuote di casa nostra, gli stessi immigrazionisti non sembrano farsi troppi problemi nel considerare le donne africane, pakistane, indiane come incubatrici umane quanto mai utili a rinfoltire le fila dell'esercito industriale di riserva di marxista memoria e la merce senziente sulla cui pelle ONG politicamente corrette in complicità con le organizzazioni criminali e il Vaticano non esitano a fare i concludere i propri lucrosi affari.
Il tutto, sempre in omaggio alla comunicazione orwelliana, mantenuto nell'implicito, nel non detto, poiché l'affermare una simile verità smaschererebbe il gioco sporco dei due pesi e due misure in cui la liberazione dal "giogo" della maternità per la donna occidentale è vista come emancipazione utile alle logiche del lavoro e dello sviluppo capitalista, ma al tempo stesso è necessaria la riduzione delle donne del mondo povero a incubatrici e madri "di professione".

Questo dipinge una volta di più il reale gioco delle rappresentanze politiche di oggi del tutto rovesciato rispetto al passato. La classe proletaria era così definita proprio perché la sua unica vera ricchezza era la prole, la capacità di mettere al mondo figli che ripagassero la famiglia sia affettivamente sia con un misero salario in più. Sorprende o meglio sarebbe dire disgusta che i nipotini della classe politica che un tempo tutelava proprio il proletariato, e ci riferiamo alle sinistre orcobaleno della globalizzazione, abbiano radicalmente cambiato posizione rispetto al rispettabile ideale comunista, e se il valore della prole è oggi disperezzato e precarizzato in occidente, questa sinistra non si fa problemi a sfruttare proprio gli ultimi proletari rimasti al mondo: le madri dei paesi poveri del globo, private di tutto, persino della speranza, fuorchè della loro amorevole potenzialità generatrice di figli.
Figli subito strappati, manipolati e gettati nel tritacarne delle migrazioni e del nuovo schiavismo del lavoro nella peggior (il)logica del sistema capitalista.